Racconti sulla guerra del 1943 a Vastogirardi
Nicola Liborio Cea
di Claudio Amicone
Il cavallo gli diede, con un brusco movimento della testa, una breve strusciata sulla spalla possente.
Gli manifestava così, da sempre, la gioia di uscire fuori dalla stalla. Per diversi giorni e notti,
in quell’autunno del ’43, lo aveva tenuto nascosto nei boschi affinché i tedeschi non glielo sequestrassero
e ricorrendo a mille accorgimenti per non essere visto e osservato, lo aveva salvato dalle pattuglie dei
soldati germanici che rastrellavano le campagne per il sequestro degli animali.
Solo la sera prima aveva osato riportarlo alla scuderia approfittando del buio e della nebbia che avvolgeva il paese.
Cea Nicola Liborio aveva appena finito di sellare l’animale che questi si spingeva e tirava la cavezza verso
l’uscita della scuderia voglioso di stare all’aria aperta. I suoi pensieri, intanto, si concentrarono
sulla scelta del percorso da fare per il solito giro di ispezione della proprietà di donna Giacinta Marracino
coniugata con Francesco Selvaggi originario da San Massimo. La proprietà, abbastanza cospicua,
circa 740 ettari di terreno, tra cui pascoli, boschi, seminativi vari e diversi immobili,
Donna Giacinta l’aveva ottenuta in eredità dallo zio Mimì e dalla moglie, la zia Pasqualina Scocchera.
Infatti era stata adottata, sin da tenera età, dallo zio Domenico, fratello del padre Nicola procuratore del
Re in quel di Aqui. Don Domenico Marracino, figlio di Giacomo, capitano della guardia nazionale durante
l’unità d’Italia di 150 anni fa, aveva sposato la vedova Donna Pasqualina Scocchera, da cui però non
aveva avuto figli. Colaliborio ne era diventato il guardiano e custode da oltre vent’anni. A dire il
vero già prima di andare in America, donna Pasqualina gli aveva offerto la possibilità di lavorare per
la loro azienda. Aveva allora quasi quindici anni e mentre aiutava il padre (Minghe Céa) (1) a scaricare
le mantégne pe le vine (botti di circa 50 litri), era stato adocchiato dalla ricca possidente per la
sua prestanza e bella presenza. Gli chiese chi fosse e se avesse avuto le intenzioni di lavorare per lei.
Pur se la cosa gli aveva fatto tanto piacere, con garbo rifiutò, precisando che lo zio Camillo D’Aloiso,
detto Camille de la roscia, (Camillo della rossa) lo aveva mandato a chiamare per andare a lavorare negli
Stati Uniti. Partì infatti poco dopo e con l’aiuto dello zio trovò presto il lavoro. Per quasi due anni
alla Remington, un’industria di armi ma, conosciuto un cuoco di origine francese, lavorò sei anni nel
ristorante di un grande albero di New Jork, che all’epoca, come mi ha precisato il figlio Attilio, si
chiamava Commodore Hotel. Quando ritornò in Italia, nel 1922, per un breve periodo di vacanza, doveva,
infatti, rientrare negli States perché già munito di contratto quale cuoco a bordo di una nave da crociera,
i coniugi Marracino-Scocchera gli offrirono di nuovo l’opportunità di lavorare per loro, anche perché si
trovavano sprovvisti di un guardiano essendo venuto meno il loro fiduciario custode dei beni soprannominato Sozze.
Costui infatti era stato rinvenuto cadavere nel loro bosco Gamberale, ucciso, si disse, da agnonesi; forse perché
troppo ligio al dovere. Fu probabilmente adescato in un tranello. Infatti, nel fare rientro a casa verso sera,
il suo celebre udito captò dei colpi di scure che lo indussero a volgere il suo cavallo verso il bosco
Gamberale per vedere chi stava abbattendo alberi nella proprietà di donna Pasqualina Scocchera.
Lì, oltre ai tagliatori, incontrò la morte. Pare che, dai racconti raccolti che si sono perpetuati ad oggi,
a ulteriore sfregio, gli avessero amputato l’organo riproduttivo e glielo avessero collocato nella bocca fra i denti.
Nicola Liborio nel periodo della breve vacanza in Italia aveva avuto anche modo di frequentare una ragazza
di cui si era invaghito, ma, seppur corrisposto, la stessa si era da subito rifiutata a seguirlo al di là
dell’Atlantico. Era molto attaccata alla sua famiglia, doveva collaborare con la madre nella conduzione
della casa in cui c’erano due sorelle e tre fratelli tutti più giovani di lei, essendo anche il padre emigrato
negli Stati Uniti. L’ultimo fratello poi, Michele, di appena tre anni, aveva beccato la poliomelite e necessitava
di cure continue. Ai suoi occhi pareva un tradimento verso la madre lo sposarsi e andarsene in America.
Quindi l’opportunità di diventare il guardiano responsabile di tutti beni della proprietà di Don Domenico e di
Donna Pasqualina cadde a fagiolo. Pur se a malincuore, con il contratto già sottoscritto, quale cuoco
su una nave da crociera, che tanto lo aveva fatto tentennare,
accettò la buona opportunità lavorativa, perché restava nel paese natio fra la sua gente e soprattutto
per l’amore, ricambiato, con Filomena Marracino, diventando la guardia giurata e custode dei beni di
tutta la proprietà di Don Domenico Marracino e di Donna Pasqualina Scocchera.
In seguito, dalla metà degli anni trenta, divenne anche amministratore dei beni e dell’attività inerenti
tutta la proprietà.La sua decisione, dopo quei tentennamenti, fu accolta con sollievo e soddisfazione
e fu annotata con dovizia di particolari da Don Domenico nei suoi diari. Diari che abbiamo avuto modo di consultare,
leggere e commentare con il compianto Dr. Fulvio Selvaggi, suo pronipote.
Decise al fine di andare ad ispezionare prima sullo Ospédalétto e Capo d’acqua, contrade site proprio
ai piedi di Monte Capraro. Al pomeriggio sarebbe andato a Staffoli, sulle Serre e al bosco Gamberale.
I tedeschi nella tenuta di Staffoli pochi giorni prima, tra la fine del mese di settembre ed inizio
di ottobre di quell’anno, avevano fatto bottino sequestrando diversi capi di bestiame tra vacche,
maiali, muli e cavalli. Addirittura avevano anche appiccato il fuoco alla struttura e il pagliaio
era andato completamente distrutto, quasi a voler imprimere il marchio della distruzione e della
sofferenza al popolo che li aveva traditi per passare a combatterli a fianco degli inglesi ed americani,
ma che intanto, giorno dopo giorno, risalivano inarrestabili la penisola italiana liberandola dai nazifascisti.
Non ritenne opportuno, nel mentre, salire a palazzo dalla Sig.ra Giacinta; ci sarebbe passato al ritorno
dall’Ospédalétto , prima però il ritorno a casa a mangiare con la sua famiglia. In quei giorni bui e
pericolosi era necessario quanto mai la sua presenza con la moglie, le quattro figliole e il piccolo
Attilio, l’ultimo di sette anni. Dopo sarebbe passato a salutare la padrona e il marito, l’avvocato
Francesco Selvaggi. Avrebbe rapportato e ricevuto disposizioni, preso il cibo da portare alla masseria
di Mingantonio, (Domenicantonio) dov’erano rifugiati i loro figli: Ivo diciannovenne e Lucio di sedici anni.
Erano lì rifugiati e nascosti per timore di essere presi dai soldati e costretti a lavorare per loro,
come tanti altri. Sarebbero stati utilizzati per la realizzazione delle difese contro gli alleati,
per le mille operazioni carico e scarico di materiale bellico lungo la linea di difesa “GUSTAV”,
lungo il fiume Sangro, fino al comune di Castel di Sangro. A palazzo c’era la Sig.ra con il figlio
più piccolo Fulvio e la figlia Nietta. Bruno, il primo figlio, capitano dell’esercito, era stato
fatto prigioniero e le scarse notizie avute lo davano deportato in Germania.
Il marito, pur se a palazzo, era costretto a restare nascosto e celato in casa anche perché
ricercato in quanto antifascista. Se lo avessero preso e riconosciuto i tedeschi lo avrebbero
immediatamente arrestato con altre gravi conseguenze. Per questi motivi agli inizi del ’44 dopo un
lungo viaggio, circa nove ore, come mi ha precisato il nipote Stefano, da Vastogirardi a Napoli,
a bordo di una camionetta scortata da soldati americani, fu fatto prefetto della città partenopea.
Quando arrivò in prossimità della rimessa della machena che trésca, arréte alla Madonna
(la macchina che trebbia, dietro la chiesa della Madonna), Cola Liborio salì a cavallo,
contenendo con abilità l’eventuale scarto dell’animale quando la sua mole fosse arrivata
sulla sella e mosse speditamente verso le coste Sabine. Era comunque certo di trovare qualcuno,
nascosto nei boschi dell’ Ospédalétt;, più che per preservarne il pascolo, era necessario dare
un controllo alla proprietà boschiva. In quei giorni le pattuglie tedesche avevano provveduto a
razziare e sequestrare parecchi animali. Chi li aveva salvati, di giorno li teneva nascosti nei boschi,
di notte li conduceva la pascolo ed alle prime luci dell’alba tornavano a celarli nelle folte boscaglie,
al riparo degli sguardi altrui, ma soprattutto dei tedeschi che altrimenti li avrebbero presi, sequestrati
e spediti alle truppe per il loro nutrimento. Parecchie persone avevano trovato rifugio per i loro animali
nei boschi dell’Ospédalétto, costituiti da avvallamenti ombrosi ove tenerli celati.
Infatti tutta la tenuta dell’ Ospédalétto, era costituito da un ottimo pascolo ricco di acqua sorgiva,
circondato e riparato da boschi di faggio che ne garantivano, pur se posto al di sopra dei 1.200 metri sul
livello del mare, un clima dolce e temperato in cui da sempre gli animali trovavano le condizioni ideali
per stazionare durante il pascolo estivo ed autunnale. Non poteva in quei tristi giorni proibire il
pascolo dei pochi animali rimasti ai suoi concittadini o dei paesi vicini, bisognava essere veramente
senza cuore a muovere contestazioni per pascolo abusivo, mentre era necessario che non venissero tagliate
e trafugate le piante che costituivano la dote del bosco, che gli stazzi fossero ben chiusi e preservati
con i vari recinti per le pecore. Se tutto fosse andato come si sperava, gli eventi bellici sarebbero
terminati e la vita sarebbe, pur tra mille difficoltà, ripresa per tutti nel suo corso naturale.
Era arrivato intanto all’ara de l’urse (aia dell’orso), fermò il cavallo per farlo brucare un po’
d’erba fresca. Il luogo era un ottimo posto di osservazione, il suo sguardo vagò verso il paese
e nel pianoro giù in basso. Pochissime le persone in giro per le campagne sottostanti, vide solo
passare verso il Colle dei buoi delle truppe tedesche a bordo di tre camion, ma le vide poi proseguire
veloce verso Staffoli. Prima di spingere il cavallo verso la sua meta, con la mano alzata, rispose al
saluto che una persona gli inviava dalla masseria Baldassarre.
Forse si trattava di Igino Amicone o qualche suo fratello. Continuò la perlustrazione del pianoro
sottostante ed il suo occhio attento spaziò verso il piccolo agglomerato delle Civitelle.
Non seppe trattenere un sorriso, lì alloggiava il suo collega Giandomenico Potena, guardia giurata
anch’egli e compagnone di tante avventure conclusesi quasi sempre con delle allegre bevute.
Intanto il cavallo, mangiando ogni tanto bocconi di erba fresca del ributto autunnale lungo la via,
aveva oltrepassato il guado dell’Ospédalétto, iniziando la discesa lungo il sentiero che portava
allo stazzo degli ovini. Da lontano notò, meravigliato, sullo stazzo levarsi un sottile fil di fumo.
Chi poteva essere tanto temerario da penetrare nella piccola struttura e accendervi il fuoco? Cercò
di immaginare chi fosse, scartando man mano le ipotesi che si affacciavano alla sua mente.
Indirizzò subito la sua cavalcatura verso la piccola costruzione ove i pastori trovavano rifugio,
vi svolgevano le attività della lavorazione del latte, la preparazione degli alimenti e sui dei
pagliericci riposare nelle ore notturne.
Giuntone in prossimità, scese da cavallo e, dopo aver provveduto a legare l’animale ad un palo dei
recinti per le pecore, con fare circospetto e con il fucile in spalla andò ad affacciarsi alla finestrella
dello stazzo. Stando ben accorto per vedere e non essere visto, contò quattro persone che, sedute intorno
al fuoco posto proprio al centro della stanza principale, si scaldavano e mangiavano delle patate che
avevano cotte sotto la cenere e la brace del fuoco. Cercò vanamente di ascoltare le poche parole,
quasi impercettibili, che essi stavano pronunciando. La distanza e il tono basso non gli consentirono
di ascoltarle bene. Cosa fare? Mille pensieri si affolarono alla suo mente. Era suo dovere comunque
di intervenire per la tutela della proprietà. Imbracciò vigorosamente la sua doppietta, per prudenza
non la caricò, aveva avuto modo di notare che non erano armati. Contava essenzialmente sull’effetto
sorpresa. Dagli abiti indossati dai quattro si era fatto un’idea di persone allo sbando e in fuga.
Piano si mosse verso la porta che aprì con un calcio e puntò il fucile verso gli sgomenti ospiti
seduti intorno al fuoco."Chi siete? Cosa fate? Chi vi ha autorizzato a violare la proprietà privata?"
Strillò con la sua voce tonante.Istintivamente i quattro sollevarono le mani al cielo in segno di resa e,
nella lingua che subito riconobbe, lo invitarono alla calma. Parlavano in inglese, qualcuno anche con qualche
mezza parola in italiano lo invitava a non sparare. Abbassò il fucile e chiese, in perfetto inglese, chi fossero
e perché avessero violato la costruzione penetrandovi dentro. Gli occupanti abusivi si meravigliarono
non poco della sua capacità di dialogo nella loro lingua e man mano che la discussione procedeva si
rassicurarono sulle sue intenzioni bellicose. Raccontarono di essere dei prigionieri di nazionalità
inglese e americana in fuga da un campo di prigionia in quel di Sulmona e che, con mille circospezioni,
muovendosi principalmente di notte e per le boscaglie, tenendosi nascosti di giorno, cercavano di
ricongiungersi alle loro truppe che stavano risalendo l’Italia combattendo i tedeschi che l’occupavano.
Avevano da subito, appena usciti dal bosco, provenendo dalla direzione di Ateleta, notato la costruzione
disabitata, vi erano penetrati e dopo aver scavato nelle campagne un po’ di patate le avevano cotte sotto
la brace del fuoco che poco prima avevano acceso, cercando di calmare la fame che li attanagliava.
Si raccomandarono sin dalle prime battute di non essere traditi e denunciati alle autorità tedesche,
chiedendo, anzi, l’aiuto necessario per raggiungere il fronte e ricongiungersi alle loro truppe,
dopo aver saputo sui suoi trascorsi in America dove aveva appreso la conoscenza della loro lingua.
Uno di loro, Kelly W. Mitchim, presentatosi con il grado di capitano pilota, era stato fatto
prigioniero dopo che il suo aereo, un P 400, della 345 squadriglia, era stato abbattuto in
Algeria il 09.02 43. (2) Gli altri tre erano: due di nazionalità inglese e il quarto americano.
Dopo aver rassicurato i quattro militari evasi dalla prigionia, raccomandò di non farsi assolutamente
vedere in giro, di uscire lo stretto necessario e di aspettarlo nello stazzo per l’indomani, poiché
avrebbe portato loro del cibo. Cosa che poi fece per diversi giorni.
Mentre rientrava a casa, si rimproverò per essere stato così magnanimo, avrebbe potuto pretendere
che andassero via senza esporsi ed impegnarsi troppo nei loro confronti, valutando che la cosa
era molto, ma molto pericolosa. Come all’andata si fermò lungo il sentiero consentendo anche al
cavallo di brucare l’erba cresciuta nel ributto autunnale a bordo strada, rimuginando così sul da farsi.
Captò intanto un sordo brontolio in lontananza. Il suo sguardo vagò lungo l’orizzonte lontano,
ma non c’era alcun temporale in atto, capì invece che erano rumori di cannonate provenienti
da sud - est. Più a sud dei suoi luoghi si stava combattendo. Più o meno, per la conoscenza
che aveva del territorio, era verso Campobasso che gli eserciti si fronteggiavano. La guerra
risaliva lungo lo stivale impegnando le forze nazifasciste e gli alleati. Perché esporre
inutilmente gli evasi ad un lungo viaggio per ricongiungersi ai loro eserciti? Avrebbero
potuto nel viaggio incontrare pattuglie di tedeschi che riconoscendoli li avrebbero catturati e
rispediti nei campi di prigionia, se non addirittura passarli per le armi. Più giorni di marcia
significava che li avrebbe esposti di più a quei rischi. Che fare? Accidenti si era esposto troppo.
Se avesse allontanato gli ex prigionieri la sua coscienza si ribellava come se li avesse traditi.
Poteva fregarsene e non fare più ritorno allo stazzo? Era un’ altra forma di tradimento, ma sempre
tradimento era. Non era forse conveniente tenerli nascosti in attesa che il fronte si avvicinasse
sempre di più a quei luoghi, per cui avvicinarli alle loro truppe nel giro di poche ore li avrebbe
esposti poco tempo ai rischi dell’intercettazione da parte dei tedeschi? Ma questo comportava il
sacrificio di nutrirli e tenerli nascosti. Era necessario evitare che essi si muovessero allo scoperto.
Che si facessero vedere e notare la loro presenza allo stazzo. Non dovevano accendere il fuoco durante il giorno.
Se costretti, usare esclusivamente legna secca per evitare l’emissione del fumo che potesse tradire la loro presenza.
Non dovevano assolutamente, come già avvisati, allontanarsi per procacciarsi il cibo, anche se fosse per
la sola raccolta delle patate, per altro facilmente reperibili nei campi circostanti in quel periodo.
Nessuno, nessuno doveva sapere che lui li stava aiutando. Solo alla moglie avrebbe chiesto di rimediare
dei vestiti, senza dare spiegazioni in merito, anzi avrebbe potuto mascherare che erano per i giovani
figli della padrona, la Signora Giacinta. Gli stessi che stavano nascosti, quasi alla macchia,
nei pressi della masseria di Mingantonio (Domenicantonio). Anche per il cibo avrebbe potuto
giostrare per rimediare al loro appetito. Certo c’era poco da scialare. Però ricordò il vecchio detto:
“ A casa de pezziénte ne mangane stozzera” (a casa di pezzenti non mancano tozzi di pane). Si trattava
solo di rimediare più pane. Certo a palazzo sarebbe stato facile trovarne. A suo tempo avevano saputo
mascherare i sacchi di farina e di grano nella grande cantina dispensa. Li avevano nascosti dietro
grosse fascine di legna, onde evitarne il sequestro dalle pattuglie tedesche che si erano date da
fare a rastrellare anche nelle case, sin dall’immediato comunicato di armistizio. Il grano da tempo
non era più commerciabile. Era riuscito a rimediarne abbastanza con i coloni fittavoli che lavoravano
gli appezzamenti di terra della proprietà di cui ne aveva la custodia, ma aveva dovuto tener conto
anche delle loro condizioni. La tessera annonaria non serviva granché, contavano invece le scorte di
grano, farina e di lardo per far fronte alle necessità di quel tempo. Tutti si erano ingegnati
per salvarle dalle pattuglie adibite al sequestro. Bisognava tenerle ben custodite e mascherate.
Anche a casa sua con l’aiuto della moglie e delle figlie aveva fatto la stessa identica cosa.
Non poteva assolutamente ricorrere alla cantina dispensa del palazzo. Era roba non sua e che
non poteva toccare. Chiederla significava spiegarne il perché. Significava dare troppe spiegazioni.
Cosa che non doveva assolutamente fare, per tenere all’oscuro il più possibile l’intera faccenda.
Doveva fare affidamento su quel poco che aveva di suo e che teneva allo stesso modo celato sotto
fascine di legna da ardere, dentro una vecchia cassa di quercia. Intanto pianificò di andare a
trovarli sempre verso l’imbrunire, passando prima verso la masseria ove stavano rifugiati i figli
della padrona e movendosi sempre lungo i sentieri della campagna ben coperti dai boschi e boscaglie.
Se il pane che gli portava era raffermo poco importava, spiegò subito come ricavarne pancotto,
da condire con qualche fettina di lardo o pancetta che poteva rimediare nella cassapanca di casa
adibita a dispensa e nascosta sotto legna da ardere. Non gli sarebbe stato difficile l’operazione
di sottrarne un po’. Non erano molti i pezzi di lardo conservati, ma bastevoli per quel che gli necessitava.
Si impose di nuovo di essere estremamente prudente, tenendo sempre una condotta atta a non farsi scoprire e
farne parola con chicchessia. Bisognava, intanto, comunque mantenere fede ai propri impegni di lavoro
conciliandoli con le nuove cose da farsi e resistere, resistere in attesa che i tempi migliorassero
con l’arrivo degli alleati. Studiò anche come rimediare, con l’ aiuto della moglie, degli abiti che
potessero meglio mascherare gli evasi e fargli abbandonare quegli indumenti sporchi e laceri da prigionieri,
con cui sarebbero stati individuati facilmente dai tedeschi.
Non era imminente, ma importante era che gli abiti fossero disponibili per il giorno in cui fosse
iniziato il viaggio verso il fronte.
Aveva promesso, non poteva e non doveva venir meno. Non poteva essere così cinico da infischiarsene.
Da giovanotto era andato in America a cercar fortuna, ricevendo ospitalità e possibilità di lavoro a
suo piacimento per quasi otto anni, solo per le sue scelte non vi aveva fatto ritorno, doveva in
qualche modo contraccambiare. Dopo tutti questi pensieri diede di sprone al cavallo e fece rientro a casa.
Passarono, quindi, diversi giorni in cui dovette prodigarsi a rimediare loro del cibo e, sulla base
delle loro richieste, accompagnarli verso la linea del fronte che si intuiva, dai bagliori notturni
e rumore delle cannonate, avvicinarsi sempre più. I quattro, intanto, una sera avevano raccolto cibo
e informazioni sui luoghi da raggiungere anche presso la masseria Baldassare ove erano i miei parenti,
come mi hanno raccontato, disubbidendo in parte alle raccomandazioni avute. Oltre a mio nonno, c’erano
mio padre rimpatriato dal fronte in Albania e alcuni miei zii. Utilizzavano la piccola costruzione,
immediatamente prossima alla tenuta dell’Ospédalétto, per custodire al meglio gli animali ed evitarne
il sequestro da parte dei tedeschi. Resistevano anch’essi, come tanti, evitando di essere precettati
per i lavori che le truppe di occupazione imponevano agli uomini di buona costituzione e, nel caso di
mio padre, essere deportato in Germania, in quanto militare che sulla base del comunicato di Badoglio
per l’armistizio, avrebbe dovuto combattere contro il comune nemico tedesco. Nessuno di loro tradì la
presenza degli ex prigionieri alle autorità, ma anzi divisero con loro quel poco che avevano.
Verso la fine del mese, dopo una diecina di giorni di permanenza allo stazzo, riforniti di abiti
adatti a non farli identificare, Colaliborio Cea, con movimenti sempre condotti con estrema prudenza
per evitare di essere visti e scoperti, li accompagnò fino alla località di “Sprondasino” nei pressi di
Bagnoli del Trigno. Partirono di notte e seguendo l’antico percorso del tratturo Celano – Foggia arrivati
al fiume Trigno, con abbracci e vigorose strette di mano, li salutò e prese la via del ritorno.
Il fronte era poco lontano dal luogo del commiato. Infatti verso la fine di ottobre del 1943 i
canadesi dell’VIII armata già erano in piena operazione bellica nei pressi di Frosolone, Duronia,
Torella, Molise, Sant’Angelo Limosano e Lucito, sfondando così la linea difensiva tedesca “BARBARA”.
Contravvenendo alle disposizioni di guerra che prevedevano durissime pene a chi collaborava con i nemici
del Terzo Reich, Cea Nicola Liborio mise a repentaglio la sua incolumità personale per aiutare gli ex
prigionieri di guerra che, da un campo di prigionia nei pressi di Sulmona cercarono, riuscendovi, di
ricongiungersi alle loro truppe.
Per un episodio analogo i fratelli Alberto, Gasperino e Rodolfo Fiadino di Capracotta, il 28 ottobre, spiati per
aver ospitato ed aiutato ex prigionieri di guerra in fuga verso il fronte per ricongiungersi ai loro eserciti,
furono arrestati, processati a Villa Canale nei pressi di Agnone e condannati a morte. Mentre venivano
portati sul luogo di esecuzione, in prossimità di Montecapraro sul versante di Capracotta, uno di essi,
Alberto, fuggì dal camion, come si racconta, con la collaborazione dei fratelli che evitarono ai soldati
di mirare, sparare e colpire il fratello in fuga. Poco dopo, però, Gasperino e Rodolfo Fiadino furono
barbaramente uccisi da un plotone di esecuzione tedesco. Era il 4 novembre del 1943. Anche il Molise
con il sangue dei suoi figli pagava il tributo alla resistenza dell’occupazione dei tedeschi.
Vastogirardi forse fu più fortunato, non fu distrutto, salvo poche case all’inizio di via Re d’Italia,
non ebbe martiri ma, con tanti piccoli episodi di resistenza passiva, atti di collaborazione attiva
con gli alleati e vittime indirette del passaggio della guerra, contribuiva al riscatto del popolo
italiano dal periodo infausto del fascismo.
Qualche tempo appresso a Cea Nicola Liborio il comando alleato a Napoli rilasciava l’attestato di
gratitudine e riconoscimento, sotto riportato, a firma del generale Harold Rupert Leofric George Alexander,
Comandante in capo delle Forze Alleate nel Mediterraneo.
Quel che più fu gratificante, però, risultò essere la sorpresa di un pacco doni che alla famiglia Cea
Nicola Liborio arrivò nell’ottobre del 1946 da parte del colonnello Mitchim dal Texas. Il colonnello non
dimenticò l’aiuto ricevuto e riconoscente inviò un pacco doni accompagnato da una lettera in cui ringraziava
Nicola Liborio per essersi prodigato a loro favore a suo rischio e pericolo.
Ancora oggi Attilio Cea mi precisava testualmente
"Come tutte le guerre anche la terrificante II guerra mondiale, con tutti i suoi orrori, ebbe temine nell’
aprile del 1945. Naturalmente ci fu il rimpatrio dei pochi fortunati reduci nei loro paesi di origine, dove
potettero riabbracciare i loro cari parenti ed amici, se non erano stati spazzati via dalla bufera del conflitto.
Alcuni di essi, come narrano le cronache degli anni successivi, memori delle peripezie e dei gravi pericoli
scampati, si ricordarono di chi aveva dato loro un aiuto nei momenti di grave emergenza. Tra questi si può
annoverare il capitano, poi diventato colonnello, Kelly W Mitchim, che appena rientrato nel suo Texas, si
ricordò del benefattore ed ormai caro amico Nik, come soleva chiamarlo durante il soggiorno all’Ospedaletto.
Dopo tre anni da quel lontano ottobre del 1943 , proprio ai primi di ottobre del 1946 Colaliborio si vide
recapitare una lettera proveniente dall’agenzia C.A.R.E. inc., che come si può evincere dalla copia,
annunciava l’arrivo di un pacco spedito dal col. W. K.Mitchim. Nel pacco c’erano un infinità di cibarie ed io,
bambino di 10 anni, ricordo soprattutto le marmellate ed alcuni pezzi di cioccolato, che in quei tempi precari
e gravi mi diedero qualche momento di felicità. Mio padre, Nicola Liborio, che aveva relegato la vicenda fra
le buone azioni e i bei ricordi del passato, apprezzò il gesto dell’amico Kelly, forse più dei riconoscimenti
ufficiali del Gen. Alexander. Il pacco gli riservò una graditissima sorpresa. Conteneva infatti una bella
lettera in cui il Colonnello esprimeva profonda riconoscenza per quanto il “Dear Nik “aveva fatto per tutti e
quattro i fuggitivi, di cui si sentiva responsabile, essendo egli il più alto in grado.
Rievocava in essa il conforto morale, data la sorveglianza teutonica delle pattuglie tedesche, implacabili nella
repressione, l’incoraggiamento con le sagge raccomandazioni nell’intento di portare prudentemente a termine il
proposito di raggiungere il fronte, che ormai si avvicinava sempre più alla zona. Tra l’altro lo ringraziava per
averli sostentati con degli ottimi cibi. A tal proposito ricordava ed elencava il pancotto condito con la pancetta,
la frittata, la polenta con la salsiccia, il cheese di pecora e, il “ very good, caciocavallo”. Ricordava ancora
nella lettera i vestiti borghesi che erano serviti a ripararli dal freddo e a mascherarli come normali contadini.
Ricordava di aver indossato lui personalmente proprio il vestito dell’amico Nik, avendo quasi la stessa
corporatura, solo che gli stava un po’ largo, anche per la dieta forzata durante la prigionia. Purtroppo,
questa deliziosa lettera non è più tra le carte di mio padre, ma a Roma negli archivi dell’ambasciata
Americana. Essa fu di grande utilità ad un Vastese, per così dire, suo amico. Ma questa è un’altra vicenda
che potrebbe essere oggetto di altro racconto.
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